lunedì 11 maggio 2015

L'opera dei sanitari internati


Alessandro Ferioli

Una valutazione complessiva dell’opera dei sanitari internati nei campi di prigionia germanici deve tener conto, a mio giudizio, dei seguenti elementi. In primo luogo, in quanto fortemente limitati dalla scarsità o mancanza di farmaci e di strumentazioni, i medici si trovarono spesso nell'impossibilità di effettuare prescrizioni diagnostico-terapeutiche idonee alle malattie, col risultato d’incrementare di necessità la vicinanza col paziente come conforto e sostegno alla speranza, ampliando le funzioni relazionale e palliativa della professione al fine di lenire la sofferenza fisica e psichica dei malati, e adoperandosi in tutti i modi per migliorarne la qualità della vita. E’ illuminante al riguardo un’annotazione del Dott. Gualtiero Marello, in cui mi sembra valorizzata una visione “alta” di atto medico inteso come cura del malato piuttosto che della malattia:

“Quante volte ho parlato di pazienza! Quanto è difficile nel male, nel dolore, nella sofferenza, convincere alla pazienza! Pazienza se hai fame, se hai sete, freddo; pazienza se ti consuma la febbre, se ti strazia le viscere il dolore; pazienza se ti manca la rassegnazione e gridi e bestemmi e t’assale la disperazione; pazienza se piangi, se vivi, se muori; pazienza sempre. Devi dirlo con calma, ragionando, sorridendo, perché almeno la tua calma e il tuo sorriso, se non la parola, sappiano inspirare fiducia!”

A questa considerazione non è estraneo il fatto che negli ospedali-lager si è sbriciolato il “muro” che normalmente divide chi patisce e chi cura, superando così il consueto stato di minorità dell’ammalato rispetto alla consolidata superiorità di chi detiene le conoscenze atte a guarire: nessuna incomprensione o diffidenza reciproca poteva esistere tra persone accomunate dalla stessa sofferenza, dalla stessa fame e - non di rado - dalle stesse malattie. Proprio per un senso di intimo rispetto del malato, i medici più attenti si preoccuparono anche di operare un’equa distribuzione delle risorse disponibili, evitando trattamenti preferenziali in funzione del grado e smascherando i simulatori. Di fronte a una molteplicità di ferite e patologie diverse, il medico militare (spesso già impratichito da un’intensa esperienza come medico di battaglione) ha dovuto invertire la tendenza, già in atto allora e oggi ancora più marcata nella professione civile, ad agire nel ristretto ambito della specializzazione acquisita (organizzata per tipologia di pazienti, per organi e apparati o per malattie), recuperando invece una solida pratica di medicina generale improntata alla ricucitura dei dettagli delle conoscenze in una visione unitaria del malato e caratterizzata da una spiccata duttilità. Con poche eccezioni, la maggior parte dei medici e degli infermieri militari, pur in circostanze così difficili, dettero prova di grande fedeltà ai principi deontologici della professione, nonché a quelli civili e cristiani di solidarietà, pietà e umanità (per non dire dei medici che, quand'anche non impegnati come tali, si adoperarono ugualmente secondo le loro possibilità).

Nessun commento:

Posta un commento